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Trump ordina la ripresa dei test sulle armi nucleari
Mosca: «Agiremo di conseguenza». Pechino: «Rispettare la moratoria»
 
												Donald Trump
Donald Trump ha archiviato tre decenni di prassi con un solo post. Pochi minuti prima dell’incontro con Xi Jinping, ha annunciato su Truth Social di aver ordinato al Pentagono di riprendere i test delle armi nucleari, interrotti dagli Stati Uniti dal 1992. Una decisione che ha colto di sorpresa la comunità internazionale e irritato Cina e Russia, giunta peraltro all’indomani dell’annuncio di Vladimir Putin sul collaudo della super-arma Poseidon. Il presidente è stato perentorio: gli Stati Uniti non possono permettersi di restare indietro rispetto alle altre due grandi potenze. “Noi possediamo più armi nucleari di qualsiasi altro Paese. Questo obiettivo è stato raggiunto, incluso un completo ammodernamento e rinnovamento delle armi esistenti, durante il mio primo mandato”, ha scritto. “A causa dell’enorme potere distruttivo, odiavo farlo, ma non avevo scelta! La Russia è seconda e la Cina è terza, a distanza ma sarà come noi entro 5 anni”, ha aggiunto.
“Visti i test di altri Paesi, ho incaricato il dipartimento della Guerra di iniziare a testare le nostre armi nucleari su base paritaria. Questo processo inizierà immediatamente”, ha concluso, precisando di aver già impartito le direttive al Pentagono. Le cifre evocate da Trump non sono verificabili, poiché il numero esatto di testate in ciascun arsenale resta coperto dal segreto. La Federation of American Scientists stima tuttavia che la Russia disponga di circa 5.459 testate e gli Stati Uniti di circa 5.177, dunque meno di Mosca. La Cina è la terza potenza nucleare con circa 600 ordigni, ma secondo il Center for Strategic and International Studies negli ultimi cinque anni ha quasi raddoppiato il proprio arsenale e potrebbe superare quota 1.000 entro il 2030. La svolta annunciata da Washington apre scenari molteplici e, in larga parte, inquietanti. Il pensiero corre al test più disastroso compiuto dagli Stati Uniti, il 1° marzo 1954, nell’atollo di Bikini: la detonazione di una bomba termonucleare a idrogeno, con una potenza mille volte superiore a quella di Hiroshima e Nagasaki. Un errore di calcolo triplicò la resa prevista, generando un fungo atomico che rese inabitabili quattro isole — tuttora deserte — e provocò effetti in un raggio di 11.000 chilometri. L’episodio fu tanto devastante che il presidente Dwight Eisenhower dichiarò la fine dei test, sospesi di fatto fino al 1992.
Nel 1996, dopo complesse negoziazioni, 187 Paesi firmarono il Trattato sulla messa al bando totale degli esperimenti nucleari (CTBT): tra le eccezioni figurano Stati Uniti, Cina, Iran e Israele, mentre la Corea del Nord non aderì e la Russia ha successivamente revocato la ratifica. La reazione di Mosca è arrivata subito. Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha affermato di non ritenere che l’annuncio statunitense inneschi una nuova corsa agli armamenti, precisando però che la Russia si riserva di agire “in base alla situazione”. Ha inoltre negato che i test del Poseidon e, pochi giorni prima, del Burevestnik abbiano natura nucleare. Il tutto avviene a quattro mesi dalla scadenza del New START, prevista per febbraio 2026: l’ultimo trattato ancora in vigore tra Stati Uniti e Russia sulla limitazione delle armi strategiche. Anche Pechino ha replicato, invitando il tycoon a “rispettare scrupolosamente” la moratoria globale e “il loro impegno a vietare i test nucleari, intraprendano azioni concrete per salvaguardare il sistema globale di disarmo nucleare”. Netta la condanna delle Nazioni Unite alla prospettiva di un ritorno ai test: “Non devono mai essere consentiti”.
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